24.6.12

I vertici dell'euforia, prima del 1929


Un’altra pioggia di azioni venne dagli «investment trust», ingegnose organizzazioni che emettevano titoli propri investendo poi il denaro ricavato in titoli di altre compagnie. Il fatto che gli «investment trust» vendessero molte più azioni di quelle che acquistavano, non pareva destare alcuna diffidenza. La gente comune non capiva bene il funzionamento di queste alchimie finanziarie, ma aveva una fiducia assoluta negli amministratori dei trust. Del resto, sui giornali comparivano regolarmente inserzioni rassicuranti che proclamavano: «Il nostro trust ha come consulenti i più famosi economisti del Paese: per voi, per dar valore ai vostri dollari, abbiamo mobilitato in notevole misura la trionfante intelligenza affaristica degli Stati Uniti».
Anche le azioni emesse dai trust andarono a ruba, ma non bastava ancora. Sempre nei cuore di quella folle estate, John Raskob, che dalla General Motors era passato alla direzione del comitato nazionale del partito democratico, forse per contrastare la marcia sulla Casa Bianca di Herbert Hoover (mancavano pochi mesi alle elezioni) propose un piano per dare la ricchezza anche agli americani più poveri. «Il mio piano – assicurò Raskob – ha l’approvazione di finanzieri, di economisti, di banchieri e di molti uomini non di primo piano, ma ricchi di idee.» In breve, si trattava di questo. Innanzitutto, occorreva organizzare una speciale società per l’acquisto di azioni: un tassista con 200 dollari di risparmi, per esempio, avrebbe potuto affidare i suoi soldi alla società incaricandola di acquistare titoli per 500 dollari. La differenza di 300 dollari sarebbe stata coperta da una seconda società, presso la quale tutti i titoli di tutti i clienti sarebbero stati depositati in garanzia. Il tassista, pagando il suo debito a rate di 25 dollari al mese, avrebbe potuto ritirare dopo un anno 500 dollari d’azioni che, nel frattempo, sarebbero immancabilmente cresciute di valore: mille dollari, duemila, chissà…

L’annuncio del piano Raskob fu accolto, con un’emozione pari a quella che avrebbe suscitato la notizia della scoperta dell’elisir della giovinezza eterna, ma non fermò Hoover sulla strada della Casa Bianca, e con l’elezione del nuovo presidente l’intero Paese si abbandonò a quella che negli anni successivi fu concordemente definita «una vera e propria orgia speculativa».
Si speculava forsennatamente a Wall Street; giocavano in Borsa a Chicago i gangster di Al Capone appena reduci dalla strage di San Valentino (sette uomini di una banda rivale spazzati via in un garage a colpi di pistola mitragliatrice); a Los Angeles, l’attore più fortunato dell’anno, Douglas Fairbanks senior, investiva in azioni l’intero compenso che gli era stato dato per il film «La maschera di ferro». In dicembre, le «vedove di Rodolfo Valentino», le centinaia di migliaia di donne americane che coltivavano appassionatamente la memoria dell’attore ucciso dalla peritonite due anni prima, e che per la gran parte erano diventate accanite giocatrici in Borsa, trovarono sui giornali due notizie ugualmente appassionanti: la prima diceva che Rodolfo Valentino, in realtà, era stato avvelenato da un innamorato di Pola Negri con un cocktail spruzzato di polvere di diamante e di arsenico; la seconda attribuiva alla stessa Pola Negri, l’ultima compagna del divo tanto rimpianto, l’acquisto recente di oltre un milione di dollari di azioni. La prima notizia, quella sull’assassinio del divo era falsa, la seconda era vera e Pola Negri ne avrebbe fatto le spese trovandosi, l’anno dopo, quasi completamente rovinata.
Si poteva giocare in Borsa anche a bordo dei transatlantici di lusso in navigazione fra gli Stati Uniti e l’Europa, l’Ile de France e il Leviathan. Il compositore Irving Berlin fu fortunato: durante un viaggio sull’Ile de France decise di vendere 10 mila azioni della Paramount Famous Lasthy e ne ricavò 72 dollari l’una. Nel crollo di Wall Street, quelle stesse azioni sarebbero diventate inutili pezzi di carta. Assai meno fortunati gli speculatori dell’ultima ora, i ritardatari che nei primi mesi del 1929 erano disposti a impegnarsi l’orologio per avere qualche azione della Società per l’importazione di somari dalla Spagna. Il disastro si disegnava nell’aria: il mercato azionario era ormai un pallone troppo gonfiato.
I primi allarmi non furono ascoltati. Le poche timide Cassandre, il direttore del «Commercial and Financial Chronicle» e l’esperto di Borsa del «New York Times», che osavano profetizzare un’imminente flessione del mercato, furono tacciati di disfattismo e i loro prudenti avvertimenti furono equiparati a un deliberato tentativo di sabotare lo sviluppo economico del Paese. Fu giudicata addirittura blasfema la predizione dell’economista Roger Babson secondo il quale: «Prima o poi ci sarà un crollo e sarà tremendo: gli operai resteranno senza lavoro, le fabbriche dovranno chiudere e il circolo vizioso travolgerà tutto». Le parole di Babson erano certamente un concentrato di falsità e di perfidia ai danni della legittima aspirazione alla ricchezza di tanti buoni americani: il boom, potevano vederlo tutti, appariva più florido che mai.

Ancora durante l’estate 1929 l’illusione collettiva era autorevolmente incoraggiata. Dall’università di Yale, l’economista Irving Fishser sentenziava: «I titoli azionari non sono ancora all’altezza del loro valore reale. Saliranno ulteriormente anche perché sul mercato non si sono ancora registrati i benefici del proibizionismo che ha reso l’operaio americano più sobrio e più produttivo...».
Verso la metà di settembre, alla Borsa di New York si ebbero i primi scricchiolii. In quei giorni il dirigibile tedesco «Zeppelin» stava compiendo il giro del mondo; da Parigi arrivavano i primi vestiti femminili che mortificavano le curve dei fianchi e le rotondità del seno; il romanzo di Remarque «All’Ovest niente di nuovo» diventava un bestseller, e Babe Ruth stava rivelandosi il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi. Ma gli appassionati di aeronautica, le signore attente alla moda, i compratori di libri e i tifosi di baseball avevano altro da pensare. In una movimentata giornata di Borsa le azioni U.S. Steel erano scese da 255 dollari a 246, la Westinghouse aveva perduto 7 punti e la Tel and Tel 6. Che cosa stava accadendo? I più si rincuorarono con la rosea diagnosi emessa dalla Harvard Economic Society (un istituto universitario che era giudicato il più sensibile barometro della situazione finanziaria): «Una severa depressione – dicevano a Harvard – non rientra nel novero delle probabilità».
Qualcuno, invece, cominciò a pensare che fosse ormai venuto il momento di vendere, di saltare giù dal treno in corsa prima del disastro. Come le folli speranze che lo avevano preceduto, anche il panico doveva rivelarsi contagioso: un contagio più lento, perché le illusioni sono dure a morire, ma intanto i germi della paura si propagavano. Nelle prime due settimane di ottobre cominciò a gravare sullo Stock Exchange un malessere indecifrabile: pochi acquisti tentennanti e sempre più frequenti offerte di vendita a prezzi via via decrescenti.
Il 15 ottobre, il solito professor Fisher dichiarò ai giornalisti: «Mi aspetto di vedere presto il mercato a un livello assai più elevato di oggi». E ripeté questa sua assoluta convinzione anche il 21 ottobre, ma il suo ottimismo non riuscì a esorcizzare il fantasma della crisi che stava avvicinandosi.

Appena due giorni dopo, in tutto il Paese, migliaia e migliaia di americani arrivavano alla medesima conclusione: era veramente arrivato il momento di vendere le azioni. Lo avrebbero fatto, tutti insieme, la mattina dopo, giovedì 24 ottobre 1929.