24.6.12

Milioni di disoccupati mentre Roosevelt arriva alla Casa Bianca

Il grande crollo dilagò negli Stati Uniti come una pestilenza: non accatastava molti cadaveri, ma seminava ugualmente miserie e disperazione. Eppure, durante la rovinosa settimana nera e nei giorni immediatamente successivi, si fece ogni sforzo per tenere gli occhi chiusi davanti al disastro. Come per la peste manzoniana. «In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche parlarne.., poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un nome...» Fu così anche per il «grande crollo»: un crollo c’era stato sì, ma non proprio, e in un certo senso... Fra i giornali si accese la gara dell’eufemismo: in Borsa si era verificato un ridimensionamento del mercato, un declino momentaneo. Quando la rovina divenne troppo vistosa per poter essere ancora negata, cominciò la corsa ai ripari. Fu condotta soprattutto a parole ed ebbe aspetti grotteschi. James J. Walker, rieletto sindaco di New York il 6 novembre con 865 mila voti contro i 368 mila dell’altro candidato, Fiorello La Guardia, mentre sui giornali comparivano i primi lunghi elenchi di imprese dichiarate fallite, convocò i distributori e i produttori di film per esortarli a fornire ai cinematografi «spettacoli in grado di risollevare il coraggio e la speranza nel cuore della popolazione». Occorreva ben più della mobilitazione di Hollywood, e infatti l’appello di Walker non ebbe altro risultato che contribuire a un decennio di film destinati a tener lontana la gente dal pensare.

Non risollevarono il coraggio e la speranza neppure gli appelli alla calma che arrivavano dalla Casa Bianca. Sotto lo shock del crollo azionario l’America scopriva con sgomento che la sua industria aveva avuto uno sviluppo caotico, che l’agricoltura era in crisi, che il miracolo della prosperità aveva sfiorato soltanto una parte della popolazione e che durante il boom la ricchezza dei ricchi era cresciuta più rapidamente di quanto fosse diminuita la povertà dei poveri. Il meccanismo della recessione funzionava ormai con l’inesorabilità di una reazione a catena: caduta delle vendite in tutti i settori commerciali, crisi delle aziende, riduzione dei salari, licenziamenti. Con l’aumento della disoccupazione, nuova contrazione delle vendite, altre aziende in crisi, altri fallimenti, e ancora disoccupati. Otto settimane dopo il giovedì nero, quattro milioni di americani avevano perduto il lavoro, 640 banche private erano fallite e alcune migliaia di piccole imprese avevano chiuso i cancelli.

A New York, dove il flagello si era abbattuto più violento, centinaia di ex milionari scopertisi in miseria vendevano mele agli angoli delle strade o si univano alla folla dei diseredati in coda davanti alle sedi dell’Esercito della Salvezza per ricevere una scodella di zuppa. C’erano lunghe code davanti alle panetterie di fortuna allestite dagli enti di beneficenza: con la rovina, gli americani erano passati dalla fame di azioni alla fame di pane. Davanti alle fabbriche chiuse i disoccupati offrivano se stessi all’asta: per pochi dollari erano pronti ad accettare condizioni assai prossime alla schiavitù. «Uomo di fatica robusto e volonteroso. È disposto a lavorare 14 ore al giorno per un dollaro», gridava un improvvisato banditore. Quasi sempre lo «schiavo bianco» restava senza compratore. Nei mesi successivi, attorno a tutte le maggiori città americane, cominciarono a sorgere sterminati sobborghi costruiti con rottami di auto, lamiere rugginose, casse di sapone e bidoni di benzina. In odio al presidente Hoover, considerato ormai uno dei responsabili della miseria, questi baraccamenti erano chiamati «hoovervilles», città di Hoover. Un’indagine federale accertò, durante il febbraio 1930, che 28 mila imprese commerciali erano in crisi e non avrebbero retto per molto. Fallirono tutte, infatti, nell’arco di dodici mesi con passivi per oltre un miliardo e mezzo di dollari. Alla propaganda comunista non mancavano solidi argomenti per mobilitare le masse. Rispondendo all’appello di William Foster, primo segretario del partito comunista americano, il 5 marzo 1930 (i disoccupati erano ormai 7 milioni) quarantamila novaiorchesi invasero i prati dell’Union Square. Era una folla di miserabili con scarpe sfondate e fogli di giornali sotto le camicie per difendersi dal freddo. Foster, inerpicatosi sul piedistallo del monumento a George Washington, arringò. quell’esercito di disperati per un’ora, poi urlò: «All’assalto del palazzo del sindaco!». Si formò un disordinato corteo che prese ad avanzare tumultuando lungo la Quinta Strada. Vi fu una prima carica della polizia a cavallo, seguita da un’altra e da un’altra ancora. Non fu necessario far ricorso alle armi da fuoco: denutriti, avviliti e sfiduciati com’erano, i dimostranti furono dispersi facilmente a bastonate. Una ventina di feriti, quattordici arresti. Sconvolto dalla notizia dei disordini il presidente Hoover decise di rivolgere quella sera stessa un appello radio alla nazione. Ai milioni di disoccupati che ancora speravano in un aiuto del governo, che invocavano un pur misero sussidio, Hoover offrì il conforto di un assurdo ottimismo: «Entro sessanta giorni, io ve lo prometto solennemente, gli Stati Uniti torneranno alla normalità». L’ingegner Herbert Hoover, il «presidente miracolo» com’era stato chiamato in tempi migliori, rifiutava ancora di prendere atto della realtà. Hoover aveva un libro prediletto che leggeva ogni giorno, «Come essere padroni di sé grazie all’autosuggestione» del dottor Cowe, e forse questo poteva spiegare la ferma fiducia che ostentava, ma i milioni di americani che lo ascoltavano non avevano la risorsa dell’autosuggestione e la promessa presidenziale non li rasserenò. Il giorno successivo alla perorazione le azioni U.S. Steel, che durante il boom erano salite a 261 dollari e che erano riuscite a superare il ciclone della crisi ancorandosi a quota 150, precipitarono a 21 dollari e un quarto.

A un tristissimo 1930 seguì un tragico 1931: fallirono altre 29 mila imprese con un passivo complessivo di 730 milioni di dollari e i disoccupati superarono gli otto milioni. Sul finire dell’anno, il presidente Hoover era politicamente agonizzante: il suo stesso partito gli voltava le spalle e una schiera non piccola di repubblicani progressisti era ormai trasmigrata nelle file del partito democratico il cui «numero uno», il governatore dello Stato di New York, Franklin Delano Roosevelt, andava predicando la necessità di attingere alle riserve federali per assistere i disoccupati e per creare nuovi posti di lavoro con una politica di vasti lavori pubblici. Sarebbe bastato un incidente per dare a Hoover il colpo di grazia. E l’incidente accadde pochi mesi dopo, il 17 luglio 1932, a ottocento metri dalla Casa Bianca, nella Pennsylvania Avenue. In questa strada, ormai da una ventina di giorni, un enorme edificio già in parte demolito era divenuto il centro di raccolta di alcune migliaia di disoccupati che avevano combattuto in Europa durante la prima guerra mondiale e che erano venuti a Washington per esigere il pagamento della polizza di assicurazione che era stata loro concessa al momento del congedo. Si erano accampati nel gigantesco stabile con mogli e figli, decisi a non sloggiare senza prima aver ottenuto i pochi dollari che spettavano loro. Al presidente Hoover era parsa un’intollerabile sfida e la sera del 16 luglio dalla Casa Bianca era partito un ordine preciso. Durante la notte, quattro squadroni di cavalleria e una colonna di fanteria dell’esercito degli Stati Uniti si schierarono nella Pennsylvania Avenue e cinsero silenziosamente d’assedio l’edificio occupato dagli ex combattenti. All’alba l’accerchiamento era compiuto. Comandava l’operazione un ufficiale di 42 anni, un maggiore al quale gli esperti pronosticavano un brillante avvenire. Si chiamava Dwight Eisenhower.

Alle 10.30, mentre dalle finestre dell’edificio assediato volavano insulti e pietre, il maggiore Eisenhower lanciò con un megafono il suo ultimatum: «Sgomberate il palazzo o saremo costretti a usare la forza». Gli rispose un colpo di pistola sparato in aria da una delle finestre. Eisenhower, che intanto si era portato in mezzo alla strada, si girò indietro a guardare in direzione di un portone sotto il quale, da una decina di minuti, era «in osservazione» addirittura il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Douglas Mac Arthur. Un cenno della mano dell’incollerito Mac Arthur e il maggiore Eisenhower diede l’ordine. Una gragnuola di bombe lacrimogene raggiunse crepitando le finestre dell’edificio occupato. La ribellione degli ex combattenti poteva dirsi conclusa. Costretti ad abbandonare l’edificio e a uscire lacrimando e tossendo nella strada, furono dispersi da una blanda carica di uno dei quattro squadroni di cavalleria. «Se l’esercito degli Stati Uniti deve fare la guerra a cittadini inermi, allora l’America non è più l’America» scrissero l’indomani i giornali e per il presidente Hoover fu la fine. Obbedendo agli ordini di un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, futuro presidente repubblicano, aveva inconsapevolmente contribuito a spianare la strada a vent’anni di amministrazione del Paese da parte del partito democratico. La campagna elettorale, per Franklin Delano Roosevelt fu un giro trionfale, per Herbert Hoover un calvario penoso. Il 4 novembre 1932, l’uomo del «New Deal», del nuovo programma destinato a chiudere l’epoca del capitalismo senza freni e della speculazione senza regole entrava alla Casa Bianca. Intorno a lui era un Paese coperto d’ipoteche e con 14 milioni di disoccupati: l’eredità tragica di un’ormai lontana settimana nera di Wall Street.