25.6.12

“Vendere a ogni costo”: si scatena un’ondata di suicidi


Venerdì 25 e sabato 26 ottobre furono giornate di follia. Dalla Casa Bianca era stata diffusa una dichiarazione che aveva acceso le ultime speranze: «L’economia del Paese – aveva detto il presidente Hoover – posa su basi solidissime. Soltanto l’isterismo è responsabile del panico: il mercato ritroverà presto la calma».
Rapidamente, sotto la bandiera dell’ottimismo presidenziale, si schierarono i nomi più sonanti della finanza: «Nella situazione economica attuale non c’è nulla che giustifichi il nervosismo», proclamò alla radio Eugene Stevens, presidente della Continental Bank. «L’eliminazione di alcuni piccoli speculatori risulterà vantaggiosa per la Borsa», sentenziò Howard Hopson, capo dell’Associated Gas and Electric.
Una grande compagnia finanziaria acquistò un’intera pagina del «Wall Street Journal» per pubblicare queste poche parole: «A-T-T-E-N-T-I. Bisogna ragionare con calma. Date retta alle parole di fiducia dei più grandi banchieri d’America».
Ma l’incantesimo era rotto. Il tabellone luminoso della Borsa non riusciva più a reggere il ritmo dei ribassi delle azioni: le quotazioni che vi si leggevano erano in ritardo di due o tre ore sui nuovi prezzi. Da tutto il Paese arrivavano ondate di titoli in vendita…

Ugo Pettenghi
È il tardo pomeriggio del 25 ottobre 1929. Nell'interno del palazzo della Borsa di New York ogni illusione è caduta. Le azioni stanno precipitando e tutti continuano a vendere.

Domenica 27 ottobre, in moltissime chiese furono pronunciati sermoni che parlavano di «meritata punizione divina» per quegli americani che la bramosia di ricchezza aveva reso ciechi davanti ai valori spirituali. Chissà, forse la collera celeste si era davvero placata e domani le azioni avrebbero ricominciato a salire. Quella sera a Broadway, il teatro dove si replicava lo «Show Boat» di Kern e Rammerstein registrò il primato mensile degli incassi; la sala da ballo di Harlem dove Duke Ellington proponeva il suo «stile jungla» si riempì da scoppiare; davanti ai cinema che avevano in programma «Hallelujah» di King Vidor si formarono lunghe code. A Brooklyn, nel principale circolo italo-americano, un conferenziere fascista venuto da Roma spiegò all’uditorio che la prosperità americana sarebbe stata presto uguagliata e magari superata da quella dell’Italia fascista che, proprio in quelle ore, si stava preparando a festeggiare il settimo anniversario della rivoluzione voluta da Benito Mussolini.

Il lunedì, 28 ottobre, le residue speranze svanirono. Alle 11, in Borsa, le azioni della U.S. Steel erano scese di altri 17 dollari, le General Electric di 47 e mezzo, le Westinghouse di 34. Tutti gli agenti erano tempestati di telefonate perentorie: «Venda! Venda a qualsiasi cifra». A mezzogiorno erano state vendute, a prezzi via via decrescenti, tre milioni di azioni.
I cinque «grandi sacerdoti» di Wall Street tornarono a riunirsi nella banca Morgan e vi rimasero sino alle 18.30. Fu qualcosa di assai simile a un rito funebre e quando finì Thomas W. Lamont andò a leggere ai giornalisti il de profundis dell’epoca d’oro del capitalismo americano: «Mantenere un ragionevole livello dei corsi in Borsa non è nelle nostre possibilità. Noi non abbiamo che un dovere, quello di far sì che il mercato sia ordinato. Se il disastro è inevitabile, si eviti almeno il caos». I giganti di Wall Street non avevano saputo escogitare altro: agli americani rovinati dal ciclone borsistico non offrivano altra via che la rotta in buon ordine.
E invece, il martedì mattina, la rotta fu disordinata. Nel salone dello Stock Exchange le offerte di vendita parevano invocazioni di mendicanti. «Azioni delle macchine per cucire White. Prezzo di listino del 23 ottobre, 48 dollari, prezzo del 28 ottobre, 11 dollari e mezzo. Vendo duemila azioni: fate un’offerta», gridava un agente sporgendosi dal suo sportello. Finalmente un fattorino della Borsa disse forte: «Mezzo dollaro l’una». Voleva essere una battuta di spirito, ma non ci furono altre offerte e il fattorino si trovò proprietario per poche banconote di una grossa fetta di una delle più solide imprese industriali degli Stati Uniti. Così come durante il boom quasi tutte le azioni erano salite incredibilmente molto al di sopra del loro reale valore, ora, nella corsa nevrotica alle vendite, anche i titoli azionari di industrie sanissime colavano a picco assurdamente.

A mezzogiorno, John Holloway, un anziano ex commerciante del Bronx che da mesi passava le sue giornate allo Stock Exchange, vide sul tabellone luminoso che le azioni della Blue Ridge da 24 dollari erano scese a 3. Aveva investito in quel titolo tutti i suoi risparmi. Prima di afflosciarsi senza vita restò per qualche secondo con gli occhi fissi sull’inesorabile danza delle cifre luminose.
Mezz’ora più tardi, Anne Pearson, una commessa che lavorava in una gioielleria di Broadway, s’impiccava a una trave del soffitto del retrobottega. Sparpagliati sotto i suoi piedi c’erano i certificati d’acquisto di azioni per 60 mila dollari: le aveva comperate appena una settimana prima versando però al suo agente soltanto un acconto di 6 mila dollari. Ora quelle azioni valevano meno di 500 dollari.
Il rosario dei suicidi cominciava a sgranarsi davvero. Thomas Miller, presidente della Rochers Gas and Electric, scelse il gas; il banchiere John J. Riordan preferì spararsi un colpo di pistola in bocca; un commerciante che i giornali indicarono soltanto con le iniziali R. H. riempì di benzina una vasca di cemento nel giardino di casa, vi appiccò il fuoco e vi si buttò dentro: nel tentativo di strapparlo alle fiamme la moglie ebbe carbonizzate le mani.
Nel pomeriggio, dopo che la Borsa aveva chiuso registrando un ribasso medio di 40 dollari per azione, vi furono altri morti, tutti però accompagnati da certificati che attribuivano a collassi cardiaci le cause dei repentini trapassi. Suicidi mascherati con l’aiuto di compiacenti medici di famiglia? Probabile. L’improvvisa moria pareva prediligere i piccoli banchieri, gli agenti di borsa, gli speculatori della borghesia medio alta.

Nei primi giorni della settimana nera la catastrofe aveva travolto i piccoli giocatori, i bottegai, i tassisti e gli impiegati a 100 dollari la settimana che si erano illusi di aver trovato in Borsa la loro miniera d’oro: adesso, toccava agli uomini d’affari più robusti, ai banchieri di medio calibro, ai miliardari di recente fortuna.
Invulnerabili, come sempre, soltanto i grossi nomi. Attorno agli imperi dei Du Pont (chimica, petrolio e gomma), dei Ford (automobili) e dei Rockefeller (petrolio) le onde della tempesta si frangevano impotenti: erano imperi costruiti su solide ricchezze, non su montagne di titoli azionari. La crisi non pareva riguardarli.
La Casa Bianca cercò di coinvolgerli, di mobilitarli perché con il loro prestigio ridessero un po’ di fiducia al Paese ormai in preda al panico. All’appello del presidente Hoover che aveva telefonato a tutti rispose soltanto uno spettro di 90 anni, John D. Rockefeller, «L’imperatore» della Standard Oil. Nel primo pomeriggio di mercoledì 30 ottobre, il più famoso dei miliardari d’America lasciò la propria casa di campagna di Pocantico Hills, a una trentina di chilometri a nord di New York, e raggiunse in auto Wall Street, dove era stata convocata una conferenza stampa. Ai giornalisti, Rockefeller fece l’impressione di una mummia regale uscita dal sarcofago. Il viso esangue sotto una ragnatela di rughe, i capelli incredibilmente candidi, gli occhi senza luce, il vegliardo parlò lentamente, con voce da oracolo: «Niente – disse – giustifica il crollo dei valori in Borsa che ha avuto luogo nei giorni scorsi. Ci troviamo di fronte a un panico che non ha nulla di motivato. Poiché crediamo che la situazione del Paese sia salda e vigorosa e poiché abbiamo fiducia in una sollecita ripresa, mio figlio e io abbiamo deciso di acquistare forti quantità di sicure azioni...».

ugo pettenghi
A destra con il cilindro, John D. Rockfeller, il più famoso dei miliardari d'America, accogliendo un appello del presidente Hoover, si accinge a partecipare a una conferenza stampa per rassicurare l'opinione pubblica. A sinistra, Henry Ford, l'imperatore delle automobili: nonostante fosse molto amico del presidente preferì non intervenire.
Quella sera stessa, su un palcoscenico di Broadway, l’attore Eddie Cantor commentò: «Si capisce, soltanto a lui e a suo figlio è rimasto qualche dollaro in tasca».
L’evocazione del fantasma novantenne non funzionò: il Paese era ormai sprofondato nello sgomento. Prima della mezzanotte un breve comunicato della radio di New York annunciò che la Borsa, il giorno successivo, giovedì, si sarebbe aperta soltanto per poche ore nel pomeriggio e che il venerdì e il sabato sarebbe rimasta chiusa.
L’annuncio fu salutato da manifestazioni di giubilo nelle strade: tutti avevano i nervi a pezzi e la chiusura dello Stock Exchange – almeno si sperava – avrebbe riportato un po’ di calma.
Il giorno seguente, durante le tre ore di apertura della Borsa, il mercato ebbe qualche momento di ripresa, ma nessuno si illuse: il tempo dei sogni, era finito e l’America si accingeva a pagare cara l’orgia delle illusioni dei mesi addietro.